Né il paziente né i genitori, sulla morte decida lo Stato: Elisa e la nuova frontiera dell’eutanasia

Il caso Charlie è stato letto dai media, in linea generale, più o meno così: “Orribile che si voglia uccidere un bambino contro il parere dei genitori, seppur questi siano un po’ testardi nel continuare la loro battaglia”. Ora che anche loro hanno ceduto – non vogliamo certo giudicare il peso delle loro lacrime amare, ma solo le decisioni in sé – tutto si è sistemato, non ci sono più contrasti e la vicenda nel suo dramma avrà un epilogo (apparentemente) conciliante per le coscienze. Il principio che però non è cambiato sia prima che dopo la resa delle armi da parte dei genitori di Charlie è il seguente: se Tizio non può guarire da una patologia grave o almeno migliorare è meglio ucciderlo.

Questo stesso principio è stato applicato in casa nostra ai casi Welby ed Eluana. Altre situazioni simili iniziano ad occhieggiare dai tabloid nostrani. Il Giornale qualche giorno fa ha raccontato la storia di Elisa che a seguito di un incidente stradale, che le ha causato anche la perdita di materiale cerebrale, è caduta in quella che viene definita sindrome della veglia aresponsiva, una veglia che dura 11 anni. Dicevamo che ormai l’equazione vita di bassa qualità uguale morte è praticamente ben digerita da molti. L’equazione prende il nome di “best interest”, principio applicato nel caso di Charlie ed Eluana. Meglio morire che vivere disabili. Il criterio, così ci fanno credere, è oggettivo e quindi può essere applicato da chiunque: soggetto direttamente interessato, parenti, tutore, giudice, medici.

E qui sta il problema: tra tutti costoro, chi decide quando la vita non è più degna di essere vissuta e dunque di chi decide la morte del disabile perché suo migliore interesse? L’intervista rilasciata da Giuseppe, padre di Elisa e a cui ovviamente va tutta la nostra vicinanza e comprensione, è illuminante in questo senso perché indica le opzioni più discusse in tema di eutanasia su pazienti impossibilitati ad esprimere un consenso valido.

Domanda delle giornalista: “Sua figlia Le aveva mai detto cosa avrebbe voluto in questi casi?” Risposta del padre: «No. Ma se qualsiasi persona vedesse un caso del genere, direbbe che vuole morire». Il primo criterio da applicare in casi come questi pare essere quello di presunzione: Elisa non si è mai pronunciata in proposito, ma è evidente che se fosse vigile vorrebbe morire. In buona sostanza a decidere della morte di Elisa sarebbe Elisa stessa, o meglio una proiezione virtuale della sua persona realizzata da chi la conosceva. E’ un po’ come nel caso del caro estinto dove facciamo una tal cosa sicuri che a lui sarebbe piaciuto. La presunzione è falsa perché in letteratura ci sono molti casi di persone che si sono “risvegliate” ed hanno dichiarato che anche nelle condizioni precedenti avrebbero voluto continuare a vivere. Questo primo criterio ha generato lo strumento del testamento biologico o le Dat: un documento che parla a posto dell’incapace.

Secondo criterio: la familiarità con il paziente. Spiega sempre Giuseppe: «In un caso come quello di Elisa, deve essere un parente che decide sulla conclusione di questa situazione. Elisa non può decidere». Che decidano i congiunti quindi.

Terzo criterio: lo Stato. Giuseppe aggiunge: «Vorrei che ci fosse una legge che stabilisca che dopo un certo periodo, dopo anni in cui la situazione diventa definitiva ci sia la possibilità di una morte dignitosa. Ma la legge non ci tutela». Gli fa eco Eros, figlio di Marina che da 10 anni riposa non vigile in un letto di ospedale: “Non vorrei essere io farlo. Deve essere lo Stato a decidere” racconta al Corriere. Nelle more del Parlamento si ricorre ai giudici. Ed infatti il padre di Elisa sta pensando di rivolgersi all’associazione di pompe funebri Luca Coscioni per adire le vie legali.

Il soggetto che avrebbe il potere di decidere per l’eutanasia deve quindi essere individuato attraverso una dinamica a cerchi concentrici: il diretto interessato, i prossimi congiunti, lo Stato. Una dinamica che parte dall’autodeterminazione e approda all’eterodeterminazione.

In sintesi: il principio secondo il quale la fossa è il miglior posto dove mettere i disabili è pressochè dato acquisito. La discussione ormai si è spostata sulla scelta del soggetto che deve decidere della morte dell’incapace. I candidati sono tre: il paziente impersonato dalle Dat, i parenti e l’apparato burocratico dello Stato. Ultimamente pare che si propenda per quest’ultima soluzione perché nell’immaginario collettivo sa più di scelta neutra, super partes, ponderata da persone esperte, avulsa da interessi particolari e democratica. Se la legge deve essere uguale per tutti, figurarsi la morte.

Tommaso Scandroglio
In La NBQ

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