Foibe: quei martiri scomodi Nelle parole di Oliviero Zoia il ricordo, il dolore, ma anche il forte senso d’identità degli esuli

C’è stato un tempo in cui in Italia non esistevano levate di scudi per accogliere i profughi. Non venivano scanditi appelli in loro favore, né manifestazioni seguite dalla grande stampa e nemmeno raccolte di firme. Piuttosto, c’era la volontà precisa di alcuni influenti settori della politica e della cultura di nascondere la loro tragedia e gettare nell’oblio il loro dolore, nonostante fossero profughi italiani.
La storia
Erano le popolazioni in fuga dal terrore scatenato dalle truppe jugoslave del leader socialista Josip Broz (detto Tito) in Istria, a Fiume, in Venezia-Giulia, in Dalmazia. La storia oggi è (più o meno) nota. Dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943, una parte di questi territori venne occupata dall’esercito jugoslavo, che approfittò dell’assenza di un controllo militare dell’Asse per dar luogo a rappresaglie nei confronti della popolazione italiana.
Fu il preludio di quella che molti storici interpretano come una pulizia etnica o ideologica. Non mancarono episodi di resistenza da parte di reparti della X Mas, che tuttavia non riuscirono ad ostacolare l’avanzata delle armate di Tito, che giunsero fino a Trieste. Per gli italiani stanziati in queste terre fu l’inizio di un incubo, che si consumò sotto forma di deportazioni, fucilazioni, affogamenti nell’Adriatico, soprattutto di infoibamenti. Moltitudini di civili, colpevoli soltanto di essere italiani e di non accettare la dittatura socialista in patria, furono gettati nelle foibe, cavità carsiche che caratterizzano quei territori. I più fortunati riuscirono a fuggire al di qua del confine italiano, in cerca di una comprensione che però fu spesso loro negata.

Il ricordo
Il dramma dei viaggi rocamboleschi degli esuli giuliano-dalmati lo si legge negli occhi di Oliviero Zoia. Classe ’52, per anni presidente del Comitato di Roma dell’Associazione Nazionale Venezia Giulia e Dalmazia, racconta con vivo trasporto l’avventura dei suoi genitori, malgrado lui non fosse ancora nato quando fuggirono dalla loro amata Fiume. In Terris lo ha incontrato nel Museo Storico di Fiume, un piccolo scrigno che contiene oltre 4mila cimeli originali e un sacrario in onore dei caduti italiani nelle terre irredente dell’Adriatico orientale. È nel cuore del Quartiere Giuliano-Dalmata, sulla via Laurentina.
Suo padre, cinque anni in guerra nella marina militare italiana di cui tre prigioniero degli inglesi in Nord Africa, tornò a Fiume nel ’45 trovando non solo la sua città, ma finanche la sua casa occupate. “La mia famiglia si occupava della guardiania della grande cava di Preluca, quella che ha dato il marmo per la costruzione di Venezia”, racconta Zoia. I nuovi occupanti titini se ne appropriarono come bottino di guerra, facendo lo stesso con tutte le altre proprietà degli italiani.
Il padre, abile fabbro, fu mandato a lavorare per la costruzione della nascente “ferrovia del popolo”che doveva sorgere alle spalle di Fiume. Ma era una vita grama: il lavoro durava tutto il giorno per tutta la settimana. Quando l’uomo provò a esprimere il proprio disappunto si trovò, nottetempo, la polizia a casa che venne a prelevarlo. “Fu caricato su un camion diretto verso le foibe – spiega Zoia – e fu salvato da una zia di etnia croata che vedendo passare il mezzo riconobbe il nipote e urlò in lingua slava ‘questo è dei nostri!’ afferrandolo per la giacca”. Egli fu fatto scendere. Ma capì che la sua vita in quella terra non poteva continuare.

La fuga oltreconfine
Nell’aprile ’47 si sposò e con sua moglie presero un treno utile per fuggire in Italia. La prima tappa oltreconfine fu la Risiera di San Sabba, vicino Trieste, proprio il campo di concentramento in cui furono segregati gli ebrei qualche anno prima. E poi ancora, una tappa in un campo a Udine e a Marina di Massa. Nella località toscana nacque la loro prima figlia, “in una baracca di legnoadibita ad infermeria del campo profughi; da lì qualche istante prima del parto era stato tolto il cadavere di un uomo annegato in mare”, racconta Zoia. Un episodio che dà il senso della situazione vissuta dagli esuli. La famiglia Zoia decise di andar via dal campo nell’agosto ’47, cercando fortuna a Roma. “I primi mesi furono molto duri, mio padre si adattò come gelataio sulla battigia di Ostia”, spiega.
Qualche tempo più tardi venne loro assegnata una piccola abitazione di 20mq, con bagno comune, in quello che oggi è chiamato Quartiere Giuliano-Dalmata. Nacque come villaggio operaio adibito ad alloggiare le maestranze impegnate nell’allestimento dell’Esposizione Universale di Roma, da cui trae origine il quartiere Eur. Scoppiata la guerra, gli operai abbandonarono le case, che vennero per un breve periodo occupate dalle truppe americane. Nel dopoguerra vi si stabilirono qualche mese depositi di materiali cinematografici, fin quando, su intuizione di Aldo Clemente, “anima” dell’Opera per l’assistenza ai profughi giuliano e dalmati, il quartiere fu assegnato agli esuli.
La Zoia fu una delle prime famiglie ad insediarsi in questa enclave giuliano-dalmata nella Capitale, nei mesi e negli anni a seguire arrivarono a frotte. Importante fu il contributo dei donatori, come l’industriale Oscar Sinigaglia e sua moglie Marcella Mayer, ebrei e sostenitori dell’italianità di Fiume. Grazie a loro fu edificata la “Casa della Bambina giuliana”, per accogliere le piccole orfane di guerra, oggi sede della Protezione Civile.

L’oblio
Gli esuli faticosamente si costruirono una nuova vita, nonostante “il clima di silenzio se non di sospetto sulla nostra sofferenza che vigeva in Italia”, precisa Zoia. Emblematico l’episodio conosciuto come “il treno della vergogna”: a Bologna un intero convoglio carico di esuli non solo non fu fatto fermare alla stazione, dove la Croce Rossa aveva preparato pasti caldi per bambini e anziani, ma venne preso a sassate da attivisti comunisti. Fatti analoghi avvenivano anche a Roma, con assalti al Quartiere Giuliano-Dalmata al grido di “fascisti!”. “Ricordo – le parole di Zoia – che quando con la nostra squadra di calcio affrontavamo avversari di quartieri vicini ‘rossi’, dovevamo prepararci allarissa”.
Zoia ci tiene a sottolineare le responsabilità politiche di tutto questo. E racconta che un noto esponente politico di quegli anni gli avrebbe confidato che per non alterare gli equilibri del dopoguerra, fu calato un velo di silenzio sugli italiani del confine orientale.

Il negazionismo
Torti che si perpetuano tutt’oggi anche sul piano culturale. Quella del negazionismo è una spina infilzata nell’animo degli esuli. Esiste un settore storiografico, perlopiù ideologizzato, che tende a minimizzare la tragedia delle foibe. Non solo, la memoria delle vittime viene spesso sfregiata da striscioni da stadio, scritte e manifesti sui muri che inneggiano a Tito e agli infoibamenti. “Bugiardi”, taglia corto Zoia, che “asseriscono che i morti furono qualche centinaio e tutti fascisti”. Ventimila gli italiani trucidati, secondo le stime del Museo Storico di Fiume. Gli ultimi campi di prigionia risalgono agli anni Sessanta, quasi vent’anni dopo la fine del conflitto.

Il Giorno del Ricordo
Uno squarcio sulla coltre di silenzio e complicità si aprì nel 1995, quando nel Parlamento italiano fu presentata la prima proposta di legge per istituire una giornata in ricordo di quelle vittime. Ma solo nove anni dopo, nel 2004, il Giorno del Ricordo fu creato ufficialmente.
“Estenuanti furono le trattative nei locali della parrocchia San Marco, qui nel Quartiere Giuliano-Dalmata – ricorda Zoia – tra esponenti della nostra comunità ed istituzionali per individuare una data in cui istituire questa Giornata”. Egli spiega che Luciano Violante (ex militante comunista e già presidente della Camera, tra gli artefici di questa Giornata, ndr) proponeva il 26 marzo, data in cui si è registrato l’ultimo viaggio di una famiglia di esuli oltreconfine, ma alla fine prevalse la linea degli esuli che spingevano per il 10 febbraio, a ricordo dell’onta di Parigi.
L’istituzione del Giorno del Ricordo fu rimuovere un tabù storico perdurato per troppi anni. Una storia di cui è intessuto ogni anfratto del quartiere Giuliano-Dalmata: lapidi, cippi, mosaici, targhe, toponomastica. Ma, soprattutto, a custodire la storia è stata l’identità degli esuli, rimasta incorrotta all’incedere del tempo grazie al senso comunitario che si è cementato tra i viali di questo ridente quartiere. Un tempo che fu, e che resta nei documenti del Museo Storico di Fiume, diretto da Marino Micich. “Oggi siamo sempre di meno – sospira Zoia -, lo vedo la domenica a Messa, dove sono ormai poche le facce che riconosco tra i fedeli”. I suoi occhi scrutano malinconici, ma la sua voce è come un ruggito di italianità che tiene vivo il ricordo.

FEDERICO CENCI – Interris

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