DOPO LE POLEMICHE Padre nostro, come se il Catechismo non esistesse

Tante discussioni sul “Padre nostro” sarebbero state evitate se qualcuno si fosse preso la briga di leggere il Catechismo e la sua spiegazione di “non indurci in tentazione”. Ma c’è un problema più ampio: inutile spendere anni sulla traduzione di una parola quando preti e vescovi regolarmente modificano a loro piacimento le parole della Liturgia.

“NON CI INDURRE IN TENTAZIONE”, ECCO COSA DICE IL CATECHISMO       

È vero che nella santa Chiesa di Dio ci sono problemi e difficoltà ben più rilevanti e gravi della revisione della traduzione del Messale italiano, però è altrettanto vero che le notizie degli ultimi giorni sono state comunicate con molte imprecisioni e si sono taciuti certi problemi di fondo. È anche vero che non si possono pretendere certe precisioni dalla stampa laica, la quale semplificando al massimo ha annunciato: “Adesso nella Messa cambia il Padre nostro, come ha voluto Papa Francesco”. In realtà non è così e i problemi non sono tutti qui, per cui credo opportuno offrire qualche considerazione in più e in ordine sparso.

.Anzitutto è necessario prendere coscienza che, abbandonato l’uso del testo latino e adottate le lingue vive, una revisione delle traduzioni è necessaria almeno una volta ogni 100 anni o, ancor meglio, ogni 50. L’ovvia ragione è che la lingua cambia: cambia a volte il significato di qualche termine e cambia insensibilmente il modo di esprimersi e per convincersene basta leggere un giornale di cent’anni fa.

Basta anche consultare il Messale nella orazione per un coniuge defunto, dove la traduzione in corso (1983) usa prima il termine “sposo/sposa” e poi subito dopo “compagno/compagna”, che oggi non significa più sposo/sposa, ma la persona convivente in una unione di fatto. Tra parentesi, tutto si sarebbe evitato se si fosse tradotto alla lettera l’unico termine che il latino usa: “famulus / servo”: “accogli la tua serva e custodisci il tuo servo, perché, uniti in vita dal vincolo dell’amore coniugale, nell’eternità siano riuniti nella pienezza del tuo amore”; invece si è voluto tradurre prima sposo/sposa e poi compagno/compagna – per il NT siamo figli e servi, ma per certi preti siamo solo figli e non siamo più servi di Dio – e  bisogna per forza cambiare.

Insieme a queste ragioni linguistiche ce n’erano anche altre e cioè i cambiamenti teologici sul modo di tradurre richiesti da Liturgiam authenticam (28 marzo 2001), documento contestato dall’inizio ad oggi, per cui 16 anni di gestazione del lavoro di traduzione rischiano di produrre un risultato con criteri diversi e non unitario. Speriamo in bene.In ogni caso il lavoro di revisione era necessario non solo per cambiare l’inizio del Gloria e la fine del Padre nostro, ma anche per tradurre ex novo i formulari per i nuovi santi o altri formulari di messe aggiunte, come il formulario di una messa per richiedere la continenza (e viste le notizie attuali, sarà un formulario da usare di frequente!). Insomma, la realtà è molto più complessa delle semplificazioni di una certa comunicazione.

Venendo al Padre nostro e alla riformulazione della sesta domanda “non ci indurre in tentazione”, credo che bisogna mettere il cuore in pace: dopo che dai vescovi sarà approvata anche dalla Santa Sede, andrà accettata come esercizio di disciplina ecclesiale.

Ciò precisato, non è la soluzione migliore, dal momento che la complessità del testo rende insufficiente ogni traduzione, per cui sarebbe stato preferibile rimanere con la traduzione acquisita, tra l’altro supportata da tanta catechesi e da autorevoli commenti.
Credo utile porre in evidenza due considerazioni che non entrano in merito alla traduzione, ma al contesto ecclesiale.

Prima considerazione: la scelta della modifica era già nell’aria e allo studio da tempo e non è avvenuta, come comunicato da alcuni giornali, semplicemente a seguito di frasi immediate di Papa Francesco in un’intervista. Fuori dubbio che il Romano Pontefice ha l’autorità non solo di suggerire ma di imporre un cambiamento del genere, ma si tratta di richiedere un atto serio e impegnativo di obbedienza, che deve essere richiesto in modo altrettanto impegnativo, cioè con un documento ufficiale e redatto nella debita forma. Salva la libertà del Papa di concedere interviste e reagire a caldo, va evitato il messaggio sbrigativo e sbagliato che nella Chiesa si cambia qualcosa perché il Papa ha pronunciato una battuta in un’intervista.

Seconda considerazione: il cambiamento di traduzione mette in crisi il CCC 2846-2849 sulla spiegazione della sesta domanda del Padre nostro, dal momento che il CCC ragiona a partire dal testo latino reso fedelmente in italiano con “e non ci indurre in tentazione”. Personalmente ritengo che, invece di modificare la traduzione, sarebbe stato meglio stare alla traduzione precedente e approfondirne il senso con la profonda spiegazione che ne fa il CCC. Ma ormai il CCC da certuni è consultato e citato solo per affermare l’esigenza di cambiarlo. Comunque a uso dei lettori riportiamo qui il testo in oggetto, che consiglio caldamente non solo di leggere, ma di rileggere, tenere a mente e meditare: la recita del Padre nostro e la vita cristiana spiccheranno un salto di qualità più prezioso di tutto il vociare che ha accompagnato la nuova traduzione.

A livello minore poi la Bibbia CEI 2008 ha cambiato anche uno degli ultimi versetti del Magnificat: “come aveva promesso ai nostri padri” (Lc 1,55) è diventato «come aveva detto ai nostri padri»”, testo più fedele agli originali greco e latino e non limitato alle promesse, ma aperto ad ogni parola di Dio ai padri. Se ne terrà conto nella recita abituale del Magnificat? Ecco dunque un altro esempio della complessità della nuova edizione.

Si potrebbero affrontare tanti altri argomenti sulla nuova edizione italiana del Messale, ad esempio il canto dei testi liturgici, in particolare i dialoghi tra il sacerdote e il popolo. Tormando però ai testi e alle traduzioni, c’è una considerazione finale molto amara ma purtroppo realistica, ed è questa: coloro i quali hanno trascorso molto tempo a studiare le parole ad una ad una e coloro (i vescovi e la Santa Sede) che autorevolmente confermeranno le soluzioni adottate, si rendono conto che molti preti con libertà cambieranno le parole del Messalemandando all’aria con un soffio ore di dibattiti, di ricerche sui dizionari, di consultazioni di esperti? Non posso neppure immaginare che non se ne rendano conto. E allora perché non intervengono ribadendo con chiarezza che “non s’ha da fare”?

Ciò in realtà capita perché non è più interiormente vissuto ed esteriormente confermato (sino ad arrivare a interventi correttivi) il principio enunciato dal concilio – non di Trento ma Vaticano II – che «Regolare la sacra Liturgia compete unicamente all’autorità della Chiesa, che risiede nella Sede Apostolica e, a norma del diritto, nel Vescovo … nelle competenti assemblee episcopali territoriali. Perciò nessun altro, assolutamente, anche se sacerdote, aggiunga, tolga o muti alcunché di sua iniziativa, in materia liturgica» (SC 22).

“Aggiungere / togliere / cambiare” sono le tre forme degli “abusi”, ricordate dal n. 24 della Istitutio Generalis del Messale Romano (2000) e nella Redemptionis sacramentum n. 31: i sacerdoti «non svuotino il significato profondo del loro ministero, deformando la celebrazione liturgica con cambiamenti, riduzioni o aggiunte arbitrarie». Ora questo procedimento si applica non solo ai gesti e ai movimenti, ma alle parole: quante parole dei testi liturgici taciute, aggiunte o modificate!

Il problema non è il prete clown o il prete che proclama “il Credo non lo diciamo perché non ci credo”: questi sono casi limite, dove sostanzialmente si reagisce bene prendendo le debite distanze. Il problema sono i preti buoni e normali, soprattutto quelli che “sanno parlare alla gente” o peggio che “non parlano da preti ma come la gente”, i quali ormai non hanno più coscienza che osservare le rubriche e non modificare i testi dove non è previsto è un atto di osservanza della disciplina della Chiesa e di trasmissione della tradizione. Come mai? Beh… a causa di una carente formazione in seminario e del non intervento dei vescovi (fatto salvo il segreto del cuore di ognuno che Dio solo conosce).

Lo so che si obietta: “In antico non era così, i testi erano autorevoli ma non costrittivi”. Vero, ma appunto “in antico”. Ciò significa che a certe fasi di vita della Chiesa ne subentrano altre dove maturano altri valori e non è detto che l’antichità di una prassi sia sempre un criterio assoluto di perfezione. In ogni caso l’obbedienza alla normativa liturgica e a pronunciare i testi senza i tre abusi ricordati anche laddove i testi potrebbero in un futuro essere modificati in meglio, è adattarsi all’attuale ritmo di marcia della Chiesa; è attendere – pur presentando una proposta di modifica a chi di dovere – che la modifica sia vagliata e acquisita nel più ampio contesto ecclesiale e non da uno solo o da un piccolo gruppo; è avere l’umiltà di fare la coda allo sportello; è servire meglio Gesù Cristo servendo il popolo di Dio.

Sarebbe auspicabile che consegnando la nuova edizione del Messale si ricordasse tutto questo con una lode per chi lo sta già praticando, evitando di confonderlo con i ritualisti, gli esteti, i neopelagiani ecc. e risparmiandolo dalla scudisciata verso costoro.

Altrimenti a che sarà servito tanto studio nello scegliere le parole se poi più di un prete (vescovo?) le cambia e lo fa senza timore, tanto è sicuro che nessuno interverrà? Si continuerà – e qui concludo ridendo – con un abuso che ho sentito: nella preghiera che segue il Padre nostro uno al posto di “vivremo sempre liberi dal peccato” ha detto “vivremo sempre liberi” e basta. A me è subito venuto in mente il “Sempre libera degg’io” a chiusa del primo atto della Traviata. Che sarà la conclusione di chi cambia con disinvoltura le parole del Messale: un “traviamento”, un andare fuori strada. Che il Signore misericordioso ce ne liberi!

Riccardo Barile in La NBQ.

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