Don Pessina martire, il vescovo rompe il tabù

Poche parole, ma decisive per inquadrare la storia di don Umberto Pessina sotto un’altra luce: quella del martirio. A 71 anni di distanza dalla sua efferata morte per mano di partigiani comunisti, il vescovo di Reggio Emilia Massimo Camisasca pronuncia parole inequivocabili sul sacrificio del sacerdote attorno alla cui uccisione si è condensato il dibattito nazionale sui preti uccisi durante e dopo la Resistenza dai partigiani comunisti.

Perché sulla morte di don Pessina si è avviluppata un’intricata vicenda fatta di ferite mai rimarginate, di strumentalizzazioni politiche, di innocenti in carcere e colpevoli riemersi dopo 40 anni. E soprattutto un mix inestricabile di posizioni che hanno polarizzato a tal punto il dibattito da fare di don Pessina il caso più famoso e scottante del celebre Triangolo della morte. Un simbolo. Ora, finalmente, dopo aver concluso da tempo la vicenda giudiziaria sui suoi assassini, per don Pessina può iniziare il secondo tempo: quello della conoscenza della sua figura di sacerdote indefesso e di martire della Chiesa.

La parola martirio Camisasca non l’ha pronunciata, ma il suo discorso difficilmente potrà essere interpretato a seconda delle convenienze anche perché è dagli anni ’50 che un vescovo in terra reggiana non pronunciava parole così chiare in riferimento al martirio.

L’occasione è stata la visita che il pastore ha fatto domenica nella parrocchia di San Martino Piccolo di Correggio, dove il 18 giugno 1946 il sacerdote fu ucciso sulla porta della canonica da sconosciuti armati. Camisasca era nella frazione di Correggio per i festeggiamenti dei 40 anni di attività del circolo culturale “Frassati” e ha celebrato la messa nella solennità del Corpus Domini. Ma domenica era anche il 71esimo anniversario dell’uccisione di don Pessina e Camisasca non ha potuto non parlare di quell’episodio, proprio sotto la grande effige del sacerdote esposta in chiesa.

E’ stato durante l’omelia che il prelato ha ricordato così il sacerdote: “È doveroso chiedere che il suo sacrificio sia conosciuto e venerato, ma non dimentichiamo che esso ha già trovato il suo compimento e la sua pace nella passione, morte e resurrezione di Cristo. Nel santissimo corpo e sangue di Cristo l’oblazione del nostro amato fratello sacerdote è stata svelata pienamente ed è stata portata nel grembo del Padre dove tutto è bene e giustizia. Con questa consapevolezza e questo conforto, continuiamo ad adoperarci perché sia resa verità ai fatti accaduti”.

Conoscere il suo sacrificio. E’ questo il percorso che restituisce nobiltà alla sua vicenda umana, letteralmente dimenticata e passata in secondo piano negli anni in cui i giornali italiani non parlavano che della revisione del processo sui veri esecutori di quel delitto. Delitto che aveva visto un primo pronunciamento della giustizia italiana negli anni ’50 con la condanna a 10 anni di carcere di tre ex partigiani comunisti, tra cui l’allora sindaco di Correggio, Germano Nicolini, il celebre comandante diavolo.

Nicolini si proclamò sempre innocente per quel delitto e dovette aspettare molti anni prima che nel 1991 con il celebre Chi sa parli, la giustizia non decise di riesaminare il caso. Fu in quell’occasione che, complici anche le garanzie che avrebbero impedito un solo giorno di carcere, emersero i veri uccisori di don Pessina. A sparare fu William Gaiti, che il 18 giugno del ’46 faceva parte del commando inviato dal Partito Comunista ufficialmente “per andare a vedere che cosa combina quel prete”.

La seconda vicenda giudiziaria si concluse con la revisione del processo nel quale Nicolini fu pienamente scagionato e risarcito e con la condanna di Gaiti per quel delitto. Ma nonostante finalmente fosse fatta giustizia, di don Pessina nessuno si è mai ricordato. La revisione del processo e la successiva vulgata mediatica hanno insistito sugli ingiustamente condannati come se fossero le prime vittime di quel delitto. Invece della vera e unica vittima, il sacerdote crivellato di colpi davanti alla sua chiesa, nessuno ha mai cercato parole di verità e favorito il ricordo, salvo alcuni parrocchiani di San Martino piccolo che ancor oggi ne venerano la figura di sacerdote.

Ecco perché le parole di Camisasca sono importanti. In una terra dove difficilmente anche la Chiesa locale ha difeso il martirio di questi sacerdoti, limitandosi a generiche iniziative per la riconciliazione, c’è ancora bisogno non solo di conoscere la figura di don Pessina come uomo di Dio, ma anche di venerarne la figura. Una venerazione che non può non avere un esito se non con la proclamazione del martirio in odium fidei di don Pessina e degli altri sacerdoti uccisi nel Triangolo della morte.

Venerare dunque, inserendosi nel solco dell’allora vescovo di Reggio mons. Beniamino Socche che volle, d’accordo con il successore di don Pessina, un significativo sacello funerario di fianco alla chiesa che oggi sta diventando meta di pellegrinaggi e visite.

Le parole di Camisasca hanno poi insistito sulla necessità di continuare ad adoperarsi per far emergere la verità dei fatti. Una verità che non può soltanto essere quella sancita dalla giustizia che ha riconosciuto la responsabilità dei veri assassini, ma una verità che deve fare luce sul perché don Pessina è stato ucciso.

Su questo versante c’è molto ancora da fare, perché la sentenza di condanna finale non entra nel merito di quella decisione delle squadre di vigilanza democratiche, però non si può non partire da quanto i famigliari del sacerdote hanno sempre detto e ribadito anche recentemente nel corso dell’ultima pubblicazione sulla storia del sacerdote: alcuni mesi prima di essere ucciso don Pessina si sentiva minacciato, aveva paura di qualche cosa tanto che per alcuni giorni dovette allontanarsi dalla sua parrocchia per riparare a casa dei fratelli. Una misura molto consueta all’epoca da parte dei sacerdoti che finivano nel mirino dei gappisti.
Di che cosa aveva paura don Pessina? Quali erano le minacce che aveva subito tanto da doversi allontanare dalla sua parrocchia? E quale nesso esiste – se esiste – tra quelle minacce e l’agguato mortale che gli tese il commando comunista la sera del 18 giugno ’46? E’ questa una delle piste da cui si deve partire per fare appunto chiarezza sulla verità dei fatti, una verità che la giustizia italiana non ha voluto approfondire, limitandosi a catalogare quel delitto come delitto per odio politico-ideologico, motivazione, guarda caso che è servita anche al seminarista Rolando Rivi per essere proclamato beato dalla Chiesa. Senza volerlo e senza approfondire motivazioni particolari se non l’odio ideologico, anche la giustizia ha riconosciuto che don Pessina è stato ucciso in odium fidei.

Ora è tempo che si prenda coscienza anche nel mondo cattolico che don Pessina e i tanti sacerdoti uccisi dalla violenza rossa sono martiri in odium fidei. Le parole di Camisasca possono essere uno start per un decisivo cambio di passo, anche in un giudizio ecclesiale sul periodo della guerra civile. E l’abbraccio in sagrestia di domenica tra il vescovo e il nipote di don Pessina, Graziano, che non ha mai smesso di chiedere una memoria piena e dignitosa per lo zio, sta a testimoniare che nel Triangolo della morte qualcosa è cambiato anche da parte delle gerarchie ecclesiastiche.

Andrea Zambrano in La Nuova Bussola Quotidiana

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