Chiamare le cose con il loro nome di Lorenzo Benedetti in Corrispondenza Romana. (a proposito di Lutero e dintorni, dqy)

«Eretico? No, grazie». Nel mondo del politicamente corretto, vi sono parole che non si possono più pronunciare. Parole che danno scandalo, che indignano i perbenisti e risvegliano i radical-chic: eppure, solo pochi anni fa magari erano vocaboli della vita quotidiana, ancora ammessi nei documenti ufficiali e nel linguaggio giornalistico, burocratico, politico, ecclesiale.     

Perché questo cambiamento? E che ruolo ha la Chiesa di oggi in tutto questo? Le parole perdono il loro valore perché vengono svendute, utilizzate per cercare di accontentare più persone possibili e cavalcare la corrente di pensiero dominante – la riduzione sincretica della Religione a sentimento di solidarietà e a mezzo per raggiungere la beatitudine terrena –, ma al caro prezzo di compromettere i fondamenti della Dottrina. Non può che stupire ed indignare, in questo senso, la statua di Martin Lutero che campeggia in Vaticano: che senso ha la statua di un apostata in mezzo alle immagini dei santi? Un’offesa verso chi, con la propria vita, è stato martire, testimone della Rivelazione, chi ha sacrificato la propria esistenza per Dio ed i fratelli in seno alla Chiesa cattolica?

È curioso come proprio la scultura – in concomitanza con l’uscita del libro Dialogo sulla fede tra il Papa ed un necessariamente poco loquace Lutero e la sua visita il 31 ottobre a Lund, in Svezia, per la celebrazione ecumenica in vista del V centenario della riforma protestante – sia adornata di una sciarpa gialla, tipico colore che caratterizzava gli eretici fino al XVIII secolo, con la scritta «Mit Luther zum Papst», con Lutero dal Papa. Strano accostamento, che balza all’occhio e fa capire che qualcosa non va: a Roma non si va dopo aver rinnegato Lutero, per rientrare in comunione col Pontefice?

«Non si può altrimenti favorire l’unità dei cristiani che procurando il ritorno dei dissidenti all’unica vera Chiesa di Cristo, dalla quale essi un giorno infelicemente s’allontanarono: a quella sola vera Chiesa che a tutti è manifesta e che, per volontà del suo Fondatore, deve restare sempre quale Egli stesso la istituì per la salvezza di tutti», così scriveva Pio XI nell’enciclica Mortalium Animos (1926): in tempi di ecumenismo buonista, la Chiesa deve avere il coraggio di andare controcorrente, tornare davvero al Vangelo ma per affermare che la salvezza è possibile solo nella Cattolicità, che non a caso è universale.

La presa di posizione argina la perdita del senso. Perché dunque non affermarlo con decisione? La Chiesa deve essere un punto di riferimento: per il Credo, per la famiglia, per la morale, un perno che il mondo sente fermo e sicuro, una fonte di valori ed insegnamenti che non contrastino con la bimillenaria Tradizione ereditata dal Figlio e garantita dallo Spirito. Compito primario del Romano Pontefice non è, come sembra oggi, elargire denaro, montare docce o andare in pullman, bensì custodire l’integrità e l’ortodossia della Dottrina religiosa, per fungere da mirabile esempio a tutta la Comunità.

Ma torniamo alla succitata sciarpa: sul campo giallo sono disegnati la cattedrale di Wittenberg, dove Lutero affisse le sue famose 95 tesi, le Alpi e la Cupola di San Pietro, in un ideale percorso dalla Germania all’Italia. È possibile unire queste due realtà? Chi scrive se lo augura, ma attraverso un’unica strada: non certo la Charta Oecumenica che sarà forse presentata a papa Francesco, ma la conversione degli eretici.

In fondo, non è una parola offensiva, significa “scelta” in greco: sta alla volontà del singolo effettuare quella giusta. «Soltanto (…) la Chiesa cattolica conserva il culto vero. Essa è la fonte della verità; questo è il domicilio della fede, questo il tempio di Dio; se qualcuno non vi entrerà, o da esso uscirà, resterà lontano dalla speranza della salvezza. E non conviene cercare d’ingannare se stesso con dispute pertinaci» (Lattanzio, Divinae Institutiones, IV, 30, 11-12). Le parole sono fondamentali, ed oggi nel mondo occidentale sono il vero atto di coraggio, dimostrato un tempo dai martiri con il proprio sangue (ed anche oggi, dqy): il coraggio di dire le cose come stanno, senza giri di parole. La forza di essere soldati di Cristo e di annunciare il Vangelo, affidandosi a Lui, e sentirsi liberi di dire “eretico” anziché “diversamente cattolico”, invece di cercare inutili vie di fuga.

 

 

 

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