• IL CASO Rom: perché il razzismo, stavolta, non c’entra

Sul caso Rom si cita l’articolo 3 della Costituzione. Che però afferma anche che parità e uguaglianza si traducono nell’applicazione giusta della legge, nel riconoscimento degli stessi diritti, ma anche doveri. Infatti la stessa Onu esprimeva nel 2016 preoccupazione per “l’assenza di dati certi sulla composizione etnica e razziale della popolazione rom in Italia”. Ecco perché la proposta di Salvini, benché provocatoria, non è razzismo, ma buonsenso

Si ritorna a parlare di rom, come sempre nei toni più accesi e nella tipica tensione che contraddistingue il dibattito italiano sul tema. Al centro di tutto, in questi giorni, una proposta del ministro dell’Interno Salvini di fare un censimento della popolazione rom in Italia, quasi subito criticata da una parte della sinistra e da una fetta di mondo cattolico per la sua incostituzionalità e per le possibili derive razziste che tali provvedimenti potrebbero prendere.

Eppure, è necessario soffermarsi sull’effettiva portata della questione per poter fare una riflessione che punti al nocciolo della questione, che è ancora una volta di carattere identitario e culturale.

Chi sono i rom?
In effetti, il nomadismo come lo conosciamo oggi nasce in Occidente negli ultimi secoli, per una questione identitaria e di cultura: in un’Europa di stati che si trovavano a dover lottare per i propri confini e a dover difendere la propria identità culturale e religiosa, la strategia dei rom fu quella di sparpagliarsi in gruppi famigliari e in clan nomadi, proprio per sfuggire alle identificazioni e alle persecuzioni che sarebbero di lì a poco arrivate. Una strategia di sopravvivenza, quindi, messa in atto per conservare la propria cultura in un contesto storico e politico che tutti conosciamo.

Ecco allora che, mentre nell’Est europeo questi gruppi vivono da sempre in case normali in perfetta armonia con i gagé (gli “altri”, per i rom), hanno una vita lavorativa e scolastica nella media e la loro presenza non è collegata ad un aumento di casi delinquenza o degrado, in Europa occidentale, e nello specifico in Italia, la situazione è molto diversa.

I campi nomadi in Italia
Parlando di numeri, è innegabile la mancanza di dati precisi che riguardino la presenza di rom, sinti e nomadi di altre etnie in Italia, che secondo il Consiglio d’Europa dovrebbero essere tra il 120mila e i 180mila. Di questi, una grossa fetta è in una situazione di regolarità e di stabilità, mentre circa 26mila, così riporta l’Associazione 21 luglio, vivono in condizioni di emergenza abitativa. L’Italia viene chiamata appunto “paese dei campi”, perché è lì che i gruppi nomadi di ogni etnia vengono indirizzati automaticamente. Campi che possono essere tranquillamente chiamati “baraccopoli”, formati da abitazioni – se così si possono definire – che spesso sono coperte da tetti di lamiera, senza acqua corrente, reti fognarie o elettricità.

Possiamo trovarci tutti d’accordo nel dire che la “ruspa” non potrà mai essere la soluzione ideale, non solo cristianamente parlando, ma anche per l’inefficacia dell’ennesimo intervento all’italiana che non risolverebbe il problema, ma lo sposterebbe di qualche metro (come già è accaduto a Bologna, con lo smantellamento dei campi nomadi da parte di Cofferati e Merola). Se un censimento mirato – su base etnica – risulta poi incostituzionale perché si scontra con il principio di non discriminazione su base etnica, religiosa o politica contenuto nell’art.3 della Costituzione, non si può tuttavia fare a meno di notare come lo stesso articolo affermi la pari dignità sociale e l’uguaglianza di fronte alla legge di ogni cittadino. Parità e uguaglianza che si traducono nell’applicazione giusta della legge, nel riconoscimento degli stessi diritti e degli stessi doveri che ogni cittadino ha nei confronti dello Stato in cui vive, qualunque sia la sua cultura di appartenenza o il proprio status sociale.

Il documento ONU sulle discriminazioni razziali
Ecco allora che ci viene posto un problema ben più complesso, segnalato tra l’altro dall’ONU, attraverso un comunicato del Comitato per l’eliminazione della discriminazione razziale – CERD, datato 9 dicembre 2016. Nel documento viene espressa la preoccupazione per “l’assenza di dati certi sulla composizione etnica e razziale della popolazione rom in Italia”, dati che potrebbero risultare un “punto di partenza essenziale” per “rivelare fino a che punto sia differenziato il godimento dei diritti previsti dalla Convenzione (International Convention on the Elimination of All Forms of Racial Discrimination, abbreviata ICERD)”, al fine di “adottare le opportune misure – anche speciali – per correggere situazioni diseguaglianza”.

La stessa Associazione 21 luglio – l’unica che in Italia si occupi davvero di fare il punto sulla situazione delle baraccopoli e sulle condizioni sociali delle famiglie rom –, attraverso la dichiarazione del presidente Carlo Stasolla ad AGI, afferma la necessità di un “censimento ordinario” che permetta di conoscere e superare quel disagio crescente che esiste, e di fronte al quale non si può più chiudere gli occhi. Certo, Stasolla lo sottolinea, un censimento ordinario dei residenti nei campi rom – a qualsiasi etnia essi appartengano – è ben diverso da una schedatura etnica, e dovrà essere finalizzato alla ricerca concreta di soluzioni attuabili e vincenti.

Discriminazione o integrazione?
Arriviamo quindi al nocciolo della questione: la presenza di gruppi rom e sinti nel nostro Paese richiederebbe un processo di riconoscimento, integrazione e dialogo efficace, che permetta la pacifica convivenza e il rispetto delle norme. In questo caso, invece, siamo di fronte a una cultura vera e propria, definita in tutte le sue caratteristiche ma per lo più sconosciuta o data per scontata perché dispersa nel mondo, emarginata da secoli, ignorata perfino da molte delle associazioni e degli enti che dovrebbero occuparsi di mediazione e di dialogo, tollerata in nome del buonismo anche nelle sue sfaccettature più criticabili che sfociano in comportamenti ben lontani dalla legalità, ma mai accolta veramente da un modo di pensare chic che non vive le periferie e distoglie gli occhi dall’effettivo disagio che interessa tutti.

Ben vengano allora le frasi provocatorie e le proposte poco calibrate di Salvini, se possono servire a riaprire il dibattito su un tema purtroppo sempre attuale. Ben vengano, perché scuotono anche le coscienze di noi cattolici, chiamati ad accogliere e anche a correggere, combattendo contro l’illegalità, il racket, lo sfruttamento di minori e la delinquenza. Non si tratta di razzismo, ma di buonsenso. È un lavoro lungo di sensibilizzazione al rispetto delle leggi, un lavoro di mediazione culturale, un lavoro di crescita umana che ciascuno di noi è chiamato a fare nei luoghi e nelle situazioni in cui ci troviamo ad abitare ed operare, ma – bisogna dirlo – proprio per la sua complessità richiede sicuramente l’intervento di uno Stato che, con o senza censimenti, si dimostri finalmente attento ai suoi cittadini e al rispetto – in ogni campo – di leggi già esistenti che vertono verso il bene comune, al di là di ogni polemica.

Sara Manzardo in La NBQ

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